Oggi vi presentiamo Noyoco, un marchio parigino di abbigliamento eco-responsabile che predilige le piccole serie di alta qualità.
In questa intervista, Eric Nemo ci racconta come è arrivato, con il suo socio, a creare questo marchio etico. In particolare, ci parla della produzione di abbigliamento di Noyoco e della sua attenzione per l’upcycling.
Come presentate il marchio Noyoco?
Il nostro obiettivo con Noyoco è quello di creare abiti semplici ed eleganti che non distruggano il pianeta. Le collezioni sono unisex e realizzate con materie prime naturali. Indossare Noyoco significa scegliere un abbigliamento eco-responsabile.
L'altro aspetto del concept è l'abbinamento dell'aspetto etico all'idea di un marchio di prêt-à-porter cool, trendy e urbano.
Abbiamo creato il marchio tre anni fa, partendo dall'idea di base di un primo progetto nato nel 2012, sul quale ha lavorato anche il mio attuale socio.
Insieme abbiamo ripreso questo progetto, l'abbiamo completamente trasformato ed è così che ha visto la luce Noyoco.
“Noyoco è nato come punto vendita fisico al 100%.”
Attraverso quali canali commercializzate il vostro marchio? Avete cominciato con negozi fisici, vero?
Noyoco è un marchio nato come punto vendita fisico al 100%, all'origine non aveva nemmeno un sito. All'epoca usavamo Shopify per il concept store, ma in realtà ce ne servivamo per fare riferimento a un catalogo di selezione di oggetti e accessori, quindi non come uno strumento di vendita online.
Quando sono arrivato ho lanciato il sito e sviluppato il marchio, e da allora è iniziata una netta crescita del fatturato dell'attività.
Così, un anno e mezzo fa, abbiamo aperto il secondo negozio a Parigi. Oggi il 30% del fatturato proviene dalle vendite online e il 70% da quelle nei negozi retail. E credo che sia solo l'inizio.
“In termini di crescita, tutte le mie aspettative sono sul web.”
Di fatto, quando si ha un negozio fisico, il giro d'affari raggiunge rapidamente un certo limite e poi la crescita smette, a meno che non si mettano in pratica strategie particolari. Tuttavia, se l'ubicazione del negozio garantisce una buona visibilità, se i commessi sanno fare il loro lavoro e se l'assortimento è interessante, i clienti arrivano automaticamente. Lo stesso non accade nel caso di un sito web. Quindi, per me, in negozio si realizza un fatturato niente male, anche se bisogna distinguere il fatturato dal margine. D'altro canto, in termini di prospettive e curva di crescita, tutte le mie aspettative sono sul web.
Ciò che voglio dire è che, in termini di reach o di visite, se ben studiato il sito ecommerce può generare un traffico 10 volte superiore a quello che si potrà mai avere in negozio.
“La moda è la seconda industria più inquinante al mondo.”
Avete preso una posizione molto forte in tema di ecologia. Perché è importante per voi?
Quando il marchio è nato, tre anni fa, spiegavamo già alla gente che la moda è la seconda industria più inquinante al mondo. È un messaggio che inizia (finalmente!) a circolare e ne siamo contenti. La moda resta tuttavia estremamente inquinante, principalmente a causa di cinque fattori.
Innanzitutto, l'approvvigionamento delle materie prime.
Il maglione che indossi, non so dove l'hai comprato, ma se andiamo a vedere, potrebbe aver percorso 40 mila chilometri prima di arrivare sulle tue spalle.
Quindi la domanda da porsi è: dove ha origine la materia prima?
Poi ci sono tutti i trasporti intermedi.
Dove viene tessuta questa materia prima? Dove viene trattata? Dove viene confezionata? A questo punto, il tessuto si presenta sotto forma di rotolo. Allora lo si spedisce altrove per la distribuzione... non ha senso. Ci sono statistiche illuminanti sull'impronta di carbonio in emissioni di CO2 degli abiti.
Terzo impatto ecologico: l'acqua.
Per produrre un chilo di cotone vengono consumati 15 mila litri d'acqua (tornerò su questo punto).
Le tinture sono un disastro. Viene riversato tutto nell'ambiente, ed ecco che abbiamo l'eutrofizzazione dell'acqua, gli inquinanti vanno nelle falde freatiche senza alcun trattamento. Ci sono paesi senza alcuna regolamentazione: la Cina, l'India, l'intera industria tessile mondiale in realtà, perché non esistono controlli.
Quarto punto: la scelta delle materie prime.
La domanda da farsi è: si tratta di cotone? Di lino? Di lana? Di fibre sintetiche?
I materiali sintetici derivano dal petrolio e dal punto di vista ecologico sono un disastro.
E quando il prezzo del petrolio scende, come accade ora, tutte le industrie tessili preferiscono acquistare fibre sintetiche piuttosto che fibre riciclate. Nella produzione di abbigliamento, non ci si rende conto dell'impatto indiretto del prezzo del petrolio sull'ambiente, che è molto forte.
Il mio ultimo punto relativo all'impatto ambientale riguarda lo spreco.
Uno dei problemi del prêt-à-porter è il riciclaggio delle fibre che vengono solitamente gettate nella spazzatura. Gettare un indumento è la cosa più orribile che si possa fare per il pianeta: i consumatori hanno tutto l'interesse ad adottare buone pratiche di raccolta differenziata! Perché, in effetti, trattare gli abiti è costoso.
C'è infine da considerare l'impatto umano della produzione tessile.
Chi produce gli abiti? Tutti abbiamo sentito storie drammatiche, 10 anni fa, sui palloni Nike fabbricati da bambini: è un argomento molto importante.
“Gettare un indumento è la cosa più orribile che si possa fare per il pianeta: i consumatori hanno tutto l'interesse ad adottare buone pratiche di raccolta differenziata.”
I punti che hai sollevato sono tanti. Come li avete tenuti in considerazione per attuare una produzione responsabile?
Nel nostro lavoro abbiamo individuato due trabocchetti del pensiero ecologico. Mi spiego.
Ci siamo detti: “Basta con le fibre sintetiche” e ci siamo concentrati sull'approvvigionamento di materie prime, quindi materiali biologici, lana, cotone, lino.
Approfondendo la questione nel corso di tre anni, ci siamo resi conto di due cose. La prima è che il cotone è un falso amico, è un disastro ambientale, a causa del consumo d'acqua. Tutti pensano: “Fantastico, cotone biologico”. Ma niente affatto, il cotone è un incubo. Ci vuole tanta acqua quanta ne consuma un italiano medio in tre mesi, insomma un delirio, per fare una misera maglietta.
“Ci vuole tanta acqua quanta ne consuma un italiano in tre mesi per fare una misera maglietta di cotone.”
Il secondo trabocchetto è la convinzione che dobbiamo continuare a produrre materie prime per fare nuovi vestiti.
In realtà abbiamo prodotto così tanti tessuti negli ultimi 50 anni che, se ci decidessimo a dare una seconda vita a quello che già esiste, non avremmo quasi più bisogno di produrre.
“Abbiamo prodotto così tanti tessuti negli ultimi 50 anni che se ci decidessimo a dare una seconda vita a quello che già esiste, non avremmo quasi più bisogno di produrre.”
Quando ci siamo resi conto di questo, per migliorare il nostro approccio abbiamo rivolto la nostra attenzione alle cosiddette giacenze inutilizzate. Sono rotoli di tessuto buttati in un angolo a marcire, a cui nessuno pensa, destinati a essere inceneriti, perché è questo ciò che succede.
La gente non se ne rende conto. Per non parlare poi di collezioni di prodotti finiti che vengono bruciate (si bruciano tonnellate su tonnellate di materiali inutilizzati).
Prendiamo l'esempio di Armani: nel nostro caso, noi lavoriamo con e recuperiamo i tessuti di Armani.
Da Armani hanno un enorme magazzino con tonnellate di rotoli. Lo stilista fa la sua collezione, ok, perfetto, ordina al suo fornitore centinaia di metri di tessuto, lo fa tagliare, alla fine restano 20 metri. 20 metri, per Armani, non vogliono dire niente. Di questi 20 metri, non sanno che farsene e li lasciano lì in un angolo. Che succede allora? Hanno 20 metri di questo tessuto, a un certo punto arriva il responsabile della contabilità e dice: “Un attimo, sapete quanto costa immagazzinare questa roba? Bisogna toglierla di mezzo”. “Ma non sappiamo che farne”. “Bruciatela. Inceneritore, arrivederci e grazie”.
“Con l'upcycling, i tessuti biologici e la produzione locale, risparmiamo in media l'85% di acqua e CO2.”
Quali impegni vi siete assunti per Noyoco sulla base di tutte queste considerazioni?
Ci siamo assunti 7 forti impegni nella produzione dei nostri vestiti:
- Produzione locale: le materie prime sono coltivate e tessute in Europa e tutti gli abiti sono fabbricati in Europa.
- Nessun materiale sintetico.
- Utilizzo di materiali biologici e riciclati.
- Niente cotone tradizionale.
- Utilizzo esclusivo di tinture vegetali.
- Promozione dell'upcycling.
- Remunerazione equa per i dipendenti delle sartorie.
“Ci siamo imposti tanti vincoli enormi perché hanno senso per il pianeta, anche quando hanno rappresentato grandi sfide da affrontare.”
Quello che era un limite importante in realtà ha dato un'identità molto forte al vostro marchio: penso in particolare all'upcycling.
È vero, e per rispondere devo raccontarti una breve storia: nel periodo in cui stavamo considerando l'upcycling, il mio partner Louis si innamorò follemente di Lauriana, una modella di Noyoco di origine rumena. Si sono messi insieme e non si sono più lasciati. Dato che anche lei aveva un marchio di abbigliamento, in Romania, ci ha fatto scoprire la produzione locale.
E pensa che la Romania è uno dei crocevia dei tessuti di seconda mano, perfetto!
Grazie a questa storia d'amore, abbiamo messo in piedi una rete di upcycling, abbiamo scovato diversi magazzini dove i ragazzi fanno questo lavoro di acquistare a destra e a manca tutte le rimanenze delle grandi case di moda. E noi arriviamo là, è il paradiso, è gigantesco, ci sono quattro piani. Entriamo, compriamo i tessuti, li srotoliamo, controlliamo i materiali e ripartiamo con la merce in spalla. Andiamo in sartoria, mettiamo giù i materiali e ci diciamo: “Che vogliamo fare con questo?”
È in queste circostanze che aggiungete una dimensione partecipativa al vostro marchio, giusto?
Esattamente: prendiamo un tessuto, pubblichiamo la foto su Instagram e chiediamo: “giacca o pantaloni?” La gente vota e, tre settimane dopo, abbiamo realizzato dei pantaloni che sono in vendita in negozio.
Abbiamo uno studio che è un grande attico e che misurerà 200 metri quadrati. Disegniamo gli abiti, facciamo i cartamodelli, facciamo le prove, sistemiamo. Quando tutto va bene, facciamo quello che chiamiamo un modello digitalizzato.
Quindi inviamo il modello al taglio. Arriviamo con il tessuto e lo consegniamo. Poi dipende, lavoriamo con molti piccoli laboratori in Romania perché ci sono molti artigiani altamente qualificati nel prêt-à-porter.
Ad esempio, collaboriamo con Mia, che ha 30 anni di esperienza come sarto e da 6 mesi lavora a tempo pieno per Noyoco.
Chi sono i vostri clienti?
Abbiamo 3 categorie di clienti:
- I parigini rappresentano il 50% delle vendite. È il nostro target di riferimento e, per loro, il sito è una semplice estensione del negozio fisico.
- Il 30% è altrove in Francia, soprattutto nelle grandi città come Bordeaux, Lione, Marsiglia e anche in Normandia.
- Il resto viene dall'estero: Svizzera, Australia, Hong Kong...
Quali applicazioni sono essenziali nella vostra attività quotidiana come proprietari di un negozio Shopify?
Ho provato un bel numero di app ed ecco le mie tre preferite del momento:
- OrderlyEmails che permette di creare email. Il miglior investimento che io abbia fatto di recente.
- Smile: ottimo per gestire programmi di fidelizzazione, programmi di sponsorizzazione, generazione automatica di codici promozionali basati sui punti accumulati, invio di email dirette.
- Recart, per l'acquisizione di indirizzi email e il recupero dei carrelli in Messenger.
“Quando scegli Shopify, è come acquistare un'auto di lusso.”
Perché avete scelto Shopify?
Inizialmente ho fatto diverse prove con PrestaShop e alla fine ho scelto Shopify per vari motivi.
Naturalmente c'è il tipo di soluzione, il fatto che sia una piattaforma SaaS. Spiego sempre ai miei clienti (perché assisto anche alcuni commercianti che vogliono sviluppare il loro negozio online):
“Quando scegli Shopify, è come acquistare un'auto di lusso: hai i migliori ingegneri del mondo che fanno il motore e io faccio la carrozzeria. La carrozzeria è tua, puoi fare quello che vuoi, hai possibilità infinite e non dovrai mai preoccuparti del motore.”
Il modello SaaS assicura una standardizzazione e definizioni chiare, in particolare rispetto alle soluzioni open source come PrestaShop, in cui ognuno deve cavarsela da sé.
“Shopify sta diventando il Google dell'ecommerce.”
Da un punto di vista generale, per me Shopify sta diventando il Google dell'ecommerce, vale a dire la piattaforma che definirà e standardizzerà tutti gli elementi dell'ecommerce, tutto ciò che riguarda clienti, ordini, inventario e tutti gli aspetti che diventeranno norme. E dal momento in cui diventeranno norme, significa necessariamente che, quando hai costruito un sistema come Shopify, costringi l'ecosistema a uniformarsi, a tutto vantaggio della produttività.
Poi naturalmente c'è l'interfaccia, il back office che, per più aspetti, offre vantaggi significativi e fa di Shopify una soluzione con un vero valore aggiunto. C'è tutta la gestione del catalogo e dell'importazione in blocco, e il bulk editor che è eccezionale.
Quello che fa la forza di Shopify è che il back office non si può toccare. C'è un campo di descrizione e basta. Non è l'anarchia. Per me questo è ottimo, perché costringe le persone a strutturarsi mentalmente nel proprio approccio all'ecommerce, le accompagna e le guida, cosa che io trovo ottima.
Infine, ovviamente, ritengo che tutte le funzionalità di personalizzazione dei temi diano un valore aggiunto enorme ai merchant. Spiego infatti alle persone che, di fatto, dopo aver creato il loro sito Shopify, non avranno più bisogno di uno sviluppatore, tranne che per aspetti molto specifici, dove possono sempre esserci necessità. Shopify ha dei limiti, ma quello che voglio dire è che puoi avviare il tuo negozio e aspettare di aver fatto 300 mila o 500 mila euro di fatturato prima di dover cambiare qualcosa. Insomma, questo aspetto è davvero una gran cosa, perché lo vedo da me, ho dei tirocinanti che quando arrivano non sanno nulla e dopo poco riescono a utilizzare Shopify.
Ecco perché per me Shopify distanzia nettamente la concorrenza.
“Se vuoi avviare un negozio, concentrati innanzitutto sulla qualità del tuo prodotto. A far funzionare il tuo sito ci pensa Shopify.”
Per finire, che consiglio daresti a chi ha intenzione di aprire un negozio con Shopify?
Gli direi di seguire il motto degli sviluppatori: KISS, Keep It Simple, Stupid, ossia il mantra che ci ricorda che il meglio è nemico del bene, che quando vuoi fare cose troppo complesse, inserzioni di prodotti troppo elaborate, testi arzigogolati, foto complicate, interfacce complesse, è lì che di fatto vai a perdere. La gente, quando vuole comprare il tuo prodotto, lo compra. Indipendentemente dall’ingegnosità dell'inserzione. Quindi, detto così, in due parole, se vuoi aprire un negozio, concentrati innanzitutto sulla qualità del tuo prodotto. A far funzionare il tuo sito ci pensa Shopify. Chiaramente, scegli Shopify per poterti concentrare sul tuo prodotto. Questo è il consiglio che darei.
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Articolo tradotto da Alessandra Muzzi.
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